22 nov 2016 – Che nel regolamento antidoping ci sia un po’ di confusione è un dato di fatto. Al di là dei pasticci che periodicamente vengono fuori, a cominciare dai farmaci autorizzati per curare determinate malattie che sembrano essere un po’ troppo diffuse tra chi fa sport di professione, per arrivare alle considerazioni su una lista infinita di farmaci vietati che spesso mette in difficoltà la buona fede, si dovrebbe partire da un concetto base: il doping, prima che essere vietato perché in grado di falsare una competizione sportiva, è vietato perché fa male al fisico.
È su questo principio, ad esempio, che si muove la giustizia italiana, non parliamo di quella sportiva. Nel congresso dei medici sportivi che si è svolto nei giorni scorsi a Faenza, uno degli argomenti che ha fatto più discutere è stato quello relativo alla tenda ipobarica. Si tratta di un sistema per simulare le condizioni di ossigeno dell’altura al fine di stimolare la produzione di globuli rossi che, poi, diventano un vantaggio quando si pedala in prossimità del livello del mare.
Il motivo della diatriba è stato un resoconto dove sembrava che si recepisse, anche in Italia, il regolamento della Wada (l’Agenzia mondiale antidoping) che non prevede divieto per la tenda ipobarica. Sarebbe stato un bel problema visto che l’utilizzo, in Italia, è vietato comunque dalla giustizia ordinaria. A porre l’accento sulla questione era stato inizialmente il giornalista di Repubblica Eugenio Capodacqua – paladino della lotto al doping sin dai tempi in cui sollevava domande che nessuno osava porre – che aveva evidenziato proprio la discrepanza tra quanto emerso dal convegno e la legge italiana. Soprattutto: se la camera ipobarica può essere pericolosa per la salute, perché permettere di usarla?
Allarme rientrato, invece, con la spiegazione che la situazione non è affatto cambiata. Lo racconta bene Valerio Piccioni sulla Gazzetta dello Sport che ha approfondito la questione: in Italia tale pratica è ritenuta pericolosa e quindi vietata a tutti i livelli. Resta la discrepanza con l’estero. I nostri corridori, di fatto, si potranno trovare a competere con atleti stranieri che mettono anche questa soluzione nell’allenamento, purché non si allenino in Italia. Ma per i nostri il divieto rimane, anche all’estero. E la confusione cresce. Assieme all’ingiustizia.
RC