10 feb 2017 – Per lungo tempo, almeno fino alla fine degli anni Sessanta, l’Italia è stata nel ciclismo su pista quello che oggi è la Gran Bretagna: la squadra da battere. È sufficiente ripercorrere l’albo d’oro di Mondiali e Olimpiadi per rendersene conto. A partire dagli anni Settanta inizia un lento ma inesorabile declino, non senza alcune eccezioni, come le Olimpiadi di Atlanta del 1996, nella quali gli italiani vinsero tre ori con Silvio Martinello, Andrea Collinelli e Antonella Bellutti.
Uno degli elementi che ha favorito la formazione di così tanti pistard vincenti è stato sicuramente la presenza, nella penisola, di un elevato numero di velodromi. Le piste erano per i giovani il luogo di avviamento alla pratica ciclistica sportiva, teatro delle sfide locali e, quando possibile, sede di kermesses con i campioni della strada o addirittura arrivo di tappa del Giro d’Italia o di corse di un giorno.
Tantissime piste!
Non esiste un censimento ufficiale dei velodromi italiani. Sul sito della Federazione Ciclistica Italiana (FCI) se ne contano 26, ma è un dato approssimato per difetto visto che manca, per esempio, il Vigorelli restaurato nel 2016. Stime più realistiche, che comprendono anche le piste non utilizzate, consentono di ipotizzare un numero più alto, compreso almeno tra 40 e 50, con una maggiore diffusione al nord, ma significativa anche nel sud, fino alla Sicilia. Si tratta quindi di un numero rilevante di velodromi, che rende l’Italia seconda forse solo al Giappone, patria del keirin, o all’Australia.
Nonostante sia noto lo scarso interesse di Mussolini per il ciclismo, la maggior parte di queste piste è stata costruita tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, all’interno di campi sportivi polifunzionali che, oltre alla pista per le bici, comprendevano in genere un campo da calcio e una pista di atletica. Da qui le dimensioni “lunghe” dei velodromi comprese tra 333,33 metri e circa 400,00 metri, in alcuni casi anche di più, come Varese, che raggiunge i 460,00 metri.
Non è un problema di lunghezza
Queste lunghezze sono rimaste del tutto normali per il ciclismo su pista fino alla fine degli anni Ottanta. Solo da Atlanta 1996 l’Unione Ciclistica Internazionale (UCI) ha fissato l’obbligo delle piste da 250,00 metri, all’interno di strutture coperte, per Olimpiadi e Mondiali. Molti impianti storici continuano in realtà a ospitare prove di alto livello. Al Velodromo “Attilio Pavesi” di Fiorenzuola, per esempio, pista scoperta da 394,00 metri, si corre da vent’anni la Sei Giorni delle Rose, gara internazionale di classe 1, unica rimasta in Italia dopo la scomparsa della celebre Sei Giorni di Milano.
Lo stesso regolamento UCI è in ogni caso molto chiaro nello stabilire che tutte le piste possono continuare a essere utilizzate, anche per gare internazionali e, in ogni caso, possono essere concesse deroghe per gli impianti storici. Nulla impedisce pertanto di continuare a girare sulle piste esistenti, all’aperto.
Patrimonio italiano
È strano constatare come in Italia sembri mancare del tutto la consapevolezza di questo patrimonio ciclistico, che è storico, ma può ancora essere sfruttato per avvicinare i giovani a questo sport e offrire al tempo stesso un luogo sicuro e divertente per la pratica amatoriale.
Ogni volta che si parla di velodromi e di ciclismo su pista giornalisti, dirigenti di FCI, ex corridori ripetono come un disco rotto lo stesso concetto: “servono velodromi coperti, Montichiari non basta”, dimenticandosi che gli impianti coperti sono molto onerosi, non solo dal punto di vista della realizzazione, ma soprattutto della gestione quotidiana, a causa dei costi di climatizzazione e della rigidità della struttura, poco adatta ad accogliere altri sport. Non a caso anche negli altri paesi europei il numero delle piste coperte da 250,00 metri è limitato: la Gran Bretagna ne ha 4, la Francia 2, Belgio, Olanda e Germania 1 solo a testa. In attesa delle risorse per eventuali nuovi impianti coperti, l’Italia può invece contare, da subito, su un numero elevato di piste tradizionali scoperte che, grazie al nostro clima mite, possono essere utilizzate tutto l’anno, e hanno il vantaggio di una presenza diffusa sul territorio.
È importante sottolineare poi che la quasi totalità di queste piste è in cemento e quindi i costi di manutenzione o di rifacimento del manto sono contenuti e di facile esecuzione, come avvenuto di recente a Dalmine.
Il caso Vigorelli
In questo contesto c’è poi il caso particolare del Vigorelli, il più famoso velodromo al mondo eppure liquidato come inutile dalla maggior parte dei commentatori, proprio in un’epoca in cui, grazie a un manifestazione come l’Eroica c’è stata una generale riscoperta del ciclismo d’epoca in tutte le sue forme.
La pista del Vigorelli, un manufatto unico per età di realizzazione e storia, non è però un oggetto “da museo”, può ancora continuare a essere utilizzata. Lo ha spiegato bene il commissario tecnico della nazionale Marco Villa in un incontro pubblico a Milano dello scorso marzo: il Vigorelli è una pista tecnica, ma non è più difficile di altre e, per il settore della velocità in paricolare, rappresenta un’ottima base di allenamento, così come per le gare stayer o le prove di ultracycling. Grazie alla sua lunghezza e all’ampia fascia di allenamento è perfetta poi per la pratica amatoriale e per l’insegnamento ai giovani.
Questo è stato confermato dalle aperture organizzate nell’autunno del 2016 dal Comitato Velodromo Vigorelli (http://vigorelli.eu/), durante le quali alcune centinaia di ciclisti – giovani promesse, amatori, atleti – hanno sperimentato la pista in legno appena restaurata ricavandone impressioni molto positive. Le cronache (http://www.arcipelagomilano.org/archives/44463) hanno raccontato che tra i ciclisti scesi al Vigorelli c’era anche l’architetto che ha disegnato il velodromo olimpico di Londra, una delle piste più moderne e veloci al mondo, che si è espresso come una parola inequivocabile: “fantastic!”.
Il fattore storia, nel caso del Vigorelli, è poi un valore aggiunto, non un limite. Non si capisce quindi per quale ragione il ciclismo italiano sia così disinteressato alle sorti di quello che Mario Fossati chiamava “il vecchio signore in frac” e suonano francamente eccessive le dichiarazioni di Gianni Bugno in un’intervista pubblicata su BS dello scorso gennaio, che ha parlato senza mezzi termini di “soldi buttati” a proposito del restauro della pista.
Una nuova speranza
Se davvero vogliamo fare “voltare pagina” al ciclismo italiano, per parafrasare lo slogan utilizzato da Renato Di Rocco per ottenere la rielezione a presidente di FCI, occorre ripartire dagli oltre 40 velodromi italiani, aprirli a “ciclisti di ogni età e abilità” (come recita il motto dello storico velodromo londinese di Herne Hill: http://www.hernehillvelodrome.com/), favorendo la nascita di un sistema diffuso di scuole di ciclismo.
Non servono grandi capitali. I costi di restauro delle piste sono relativamente contenuti e sostenibili grazie a sponsorizzazioni private e fondi pubblici, sfruttando anche i benefici fiscali dati dalla legislazione dei beni culturali, nel caso in cui i velodromi siano stati “vincolati” (come avvenuto a Torino, a Crema e al Vigorelli). Prima di tutto però servono competenze tecniche e passione per questo sport, insieme alla consapevolezza del significato storico di questi luoghi: cose che negli ultimi anni sembrano essere andate smarrite o emigrate altrove, visto che molti tecnici italiani allenano squadre straniere.
Non dimentichiamo infine la lezione di Elia Viviani che, dopo la medaglia d’oro sulla pista di Rio ha dichiarato al Corriere (si veda qui) che: “un bambino che impara a pedalare in pista con una bici senza freni sarà un ciclista con una marcia in più”. Non a caso Viviani ha promesso di destinare una parte del premio olimpico per il restauro della vecchia pista in cemento da 341,00 m di Pescantina, vicino a Verona, sulla quale si è formato.
Andrea Costa
(Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo)