13 ago 2017 – In qualche modo ci siamo sentiti un po’ tutti suoi figli. Luciano Berruti è il ciclostorico numero uno. Quello che all’Eroica era diventato un simbolo e un ambasciatore, quello che aveva un museo della bicicletta e continuava a girare il mondo nelle ciclostoriche e tutti lo guardavano.
Non lo guardavano perché pedalava su una bicicletta che era una pagina di storia e nemmeno per quel suo abbigliamento sempre particolare. Lo guardavano perché era un simbolo. Perché aveva fatto del ciclismo storico uno stile di vita, quello del saper andare avanti nonostante tutto e magari con l’ingegno.
Mi aveva fatto vedere come frenare quando i freni si rompevano: un bastone incastrato nel pedale da tirare giù ad aggrappare la strada. Mi aveva fatto vedere come andare avanti quando il copertone si strappava e non avevi ricambio: riempiendolo d’erba compattata. Una volta era arrivato all’arrivo dell’Eroica con una scarpa strappata, agganciata chissà dove. E invece di cambiarsi aveva continuato ad andare in giro così, tenendola come un trofeo ma senza vantarla. Perché Luciano Berruti era così, fiero e modesto del suo modo di essere.
Un’altra volta all’arrivo c’era arrivato sporco di sangue. “Ma non è mio” aveva rassicurato tutti. Aveva aiutato un eroico caduto sulla strada bianca, lui che si fermava sempre con tutti se c’era da dare una mano.
Per me, che lo fotografavo, era uno spettacolo. Come mi vedeva, come vedeva qualcuno con la macchina fotografica in mano, assumeva sempre la posa giusta. In salita o in pianura. In discesa no “perché il ciclismo è salita e voglia di superarsi”.
Ecco, Luciano Berruti se n’è andato così, oggi. Colto da un malore mentre era in salita.
Non l’avrebbe desiderato diversamente, ne siamo sicuri tutti.
Guido P. Rubino