25 feb 2017 – La 35ma America’s Cup in programma fra tre mesi alle Bermuda rischiava di passare come una delle edizioni più inosservate di tutti i tempi, specie in Italia, dove i team storici che sono stati protagonisti di questo sport negli ultimi due decenni (Luna Rossa e Mascalzone Latino) si sono ben guardati da partecipare a quelli che per molti è un “gioco alla distruzione”: le barche “volanti” grazie al foiling, così veloci e distanti dalla vela praticata realmente dagli appassionati, ma soprattutto il format discutibile, hanno allontanato forse irreparabilmente il pubblico da quella che si era ritrovata, per alcun di anni, a essere una disciplina allo stesso tempo esclusiva ma anche nazional popolare (o almeno, così è stato quando Luna Rossa e il Moro di Venezia sono stati capaci di conquistare la Louis Vuitton Cup).
Ma dopo la presentazione di Emirates Team New Zealand di metà febbraio la visione di questa vela estrema ha indubbiamente stuzzicato interesse fresco e inedito anche fra gli appassionati di bici. Il perché è presto svelato: in occasione del varo e della prima uscita ufficiale davanti ai media, la compagine “kiwi” ha mostrato al mondo una barca dove quattro “grinder” si alternano fra i due scafi del 50 piedi più veloce del mondo in un pozzetto loro dedicato ma, al posto di manovrare i soliti winch con la forza degli arti superiori, per quest’edizione saranno invece alle prese con sella e pedali (quattro postazioni per ogni scafo).
Trattasi di una rivoluzione quasi copernicana nel mondo della vela: per la verità degli “improvvisati ciclisti di mare” si erano già visti in una sfida svedese del 1977, con lo scopo di manovrare le vele attraverso l’azione delle gambe. E anche di recente sono stati installati dei telai di bici a bordo di trimarani oceanici, in particolare dal grande campione d’oltrealpe Franck Cammas, tuttavia non per manovrare le vele ma solo per consentire di issare la pesante randa a una singola persona nella navigazione in solitaria. Bisogna considerare che invece all’epoca dei primi esperimenti di pedali a bordo, la misura di questa soluzione si limitava al momento delle manovre, dove veniva richiesto solo uno sforzo anaerobico alattacido per il massimo 10-15 secondi necessari a una virata o strambata, analogo a quello dell’azionamento meccanico a “braccia” che, in Coppa America e non solo, hanno in seguito continuato a praticare tutti fino all’avvento dei catamarani “volanti”. In quel fallito esperimento di quarant’anni fa, infine, la trasmissione meccanica del movimento delle gambe ai winch richiedeva l’aiuto di altre persone e aveva perciò un livello di efficienza e ritardo in proporzione anche peggiore del tanto odiato (e pericoloso) delay delle turbine in Formula 1 negli anni Settanta.
Questa scelta tecnica oggi però, per quanto innovativa, non appare affatto azzardata, perché in fondo i tempi sono cambiati e a bordo di questi catamarani i velisti erano già stati convertiti in un “altro tipo di atleti”. Nel ventennio circa di generazione ACC (dal Moro di Venezia fino alle ultime Luna Rossa e Mascalzone Latino di Valencia nella campagna 2005-2007) infatti si erano affermati grinder supermuscolosi e potenti (picchi rilevati agli arti superiori anche di più di 1.000 Watt) ma difficili da allenare, perché nelle gare di match race più intense occorreva ripetere tante volte le manovre di richiamo delle scotte: si ricordano nelle regate più dure anche fino a oltre 20 virate/strambate consecutive. Si poneva quindi il problema di lavorare non solo sulla potenza anaerobica, ma d’altro canto non si poteva esagerare con il carico e con il tempo di allenamento (oltre che a bordo, anche a terra sulle macchine Technogym appositamente studiate per la Coppa America), tanto che la sessione di “resistenza” massima era di 40 minuti, pena andare incontro a sicure tendinopatie. Ma queste doti, nelle barche moderne, non servono più: meglio triatleti o pallanuotisti. Questo perché non si agisce più direttamente sulle scotte ma su di un circuito idraulico che deve preoccuparsi di generare continuamente pressione nell’impianto che manovra la maestosa wingsail da 25 metri, che fa avanzare la barca, e i foils, che la staccano dalla superficie dell’acqua. Uno sforzo continuo che impegna la maggior parte dell’equipaggio, fatta eccezione per il tattico e il timoniere.
Con la trasformazione dei winch a pedali, secondi i calcoli dei progettisti neozelandesi (che si avvalgono dell’analisi dati mediata dall’ingegnere varesino Fabrizio Marabini), essere passati all’energia delle gambe dovrebbe portare le barche ad avere un 10-15 percento di energia in più: potenza superiore e anche più resistenza per raggiungere l’obiettivo di gestire anche foil maggiormente potenti e per tempi più lunghi.
A margine dello spettacolo di vedere degli atleti impegnati a pedalare senza sosta mentre viaggiano a velocità notevoli sul mare, la ciliegina sulla torta: il team kiwi, a bordo di questi “mostri”, ci hanno portato anche un ciclista vero, come il proprio connazionale bronzo a Londra 2012 nel keirin, Simon van Velthooven. Un pistard con il pedrigree che ha molto da insegnare sulla preparazione ai giovani neocompagni di squadra e, soprattutto, anche molto da dare in base alle sue caratteristiche.
E così si apre una nuova era o, almeno, una finestra temporale dove la performance ciclistica farà la differenza nella competizione ufficiale più antica del mondo: è del 1851 infatti la Coppa delle 100 Ghinee che, davanti all’indimenticata Regina Vittoria, diede origine al sogno dell’America’s Cup, ben un ventennio prima dell’inizio delle Olimpiadi moderne.
Con il contributo del Prof. Angelo Rodio (docente Univ. di Cassino e preparatore atletico nella vela) e Santino Brizzi (grinder), entrambi membri del team Mascalzone Latino nella campagna per la 32ma America’s Cup.
Twitter: @alexdagosta
Estrema ma molto interessante la tecnologia di queste barche, vere e proprie F1 del mare, così lontane (ma forse per questo cosi affascinanti) rispetto a quelle che ognuno di noi potrebbe pilotare al mare o al lago!