21 mar 2019 – Non si sa esattamente cosa aspettarsi dall’imminente Milano-Sanremo, dopo l’impresa epocale compiuta da Vincenzo Nibali lo scorso anno. Non accadeva dai tempi di Gimondi e Merckx (rispettivamente, nel 1974 e 1975) che un Career Triple Crown Winner – cioè un corridore già vincitore delle tre massime corse a tappe di tre settimane (Tour, Giro e Vuelta) – riuscisse ad aggiudicarsi la “Classicissima di primavera”. Per una mera questione statistica, è quasi certo che sabato 23 marzo non riusciremo a vivere un’esperienza così significativa per gli amanti della storia del ciclismo: solo Nibali potrebbe ripetere l’impresa e sarà marcatissimo da tutti gli avversari, indipendentemente dal suo stato di forma. Insomma: ci dovremo accontentare di un vincitore meno “eccezionale”.
Chi? Ovviamente, non lo so.
Sarebbe facile indicare alcuni nomi sulla base delle prestazioni viste in questo primo scorcio di stagione, ma fare pronostici non mi si addice. Mi interessa di più parlare della corsa.
La Milano-Sanremo è il simbolo della permanenza e della ricorsività del ciclismo. Lo è al pari delle altre “Classiche monumento”, cioè le corse di un giorno più antiche e prestigiose del calendario agonistico mondiale (Liegi-Bastogne-Liegi, Parigi-Roubaix, Giro di Lombardia e Giro delle Fiandre), ovviamente.
Ma la Sanremo ha un suo modo peculiare di reificare la storicità del ciclismo. Non è la corsa più antica, ma è probabilmente la più “vecchia” per concezione: quella che ha potuto/saputo/voluto adattarsi meno alle trasformazioni dello sport del pedale, dal punto di vista della durezza e della selettività del percorso. Entro la continua evoluzione del ciclismo, caratterizzato da biciclette e atleti sempre più performanti, il cuore concettuale della “Sanremo” resta quello della sua prima edizione, disputata nel 1907: l’elevato chilometraggio (291 km, quest’anno), cioè la distanza necessaria per andare dalla metropoli lombarda alla riviera ligure.
Un tempo, ciò significava correre verso il sole primaverile lasciandosi alle spalle l’inverno della Pianura Padana. Oggi non è più così: raramente l’inverno si manifesta e quasi mai nella prima metà di corsa. Più spesso, la primavera è ovunque. A volte, è quasi una mezza estate: probabilmente, sarà così anche sabato.
È una corsa difficile la Sanremo, ma è una corsa semplice: cioè fatta di poche “cose” e con poche variabili rilevanti. Soprattutto dal punto di vista altimetrico: il Passo del Turchino è da tempo un semplice transito, mentre Cipressa e Poggio – le salite inserite nei decenni passati per movimentare il finale di gara – non costituiscono una difficoltà tecnica probante per i corridori. Anche l’elevato chilometraggio può essere assorbito relativamente bene: se sei un professionista ben allenato, cioè capace di reggere la velocità media astronomica che si verifica in gare di questa natura, allora puoi navigare a lungo nella pancia del gruppo, risparmiando le energie necessarie per colmare l’insolita distanza e arrivare al traguardo. I problemi veri, ovviamente, toccano ai corridori e alle squadre che hanno concrete ambizioni di vittoria o buon piazzamento. Per loro, la Sanremo può diventare logorante: bisogna essere nel posto giusto, al momento giusto, con le dovute energie, quando si darà il redde rationem agonistico. Quasi sempre, nei chilometri intercorrenti tra la salita della Cipressa e, poi, quella del Poggio. Spesso è il Poggio a decidere: lì si capisce se qualcuno ha le forze e il coraggio per tentare un numero d’alta scuola (come Nibali, lo scorso anno) o se si arriverà in volata sul rettilineo finale.
Prima del redde rationem, la Sanremo può apparire una competizione molto “noiosa” per chi segue il ciclismo solo per avere emozioni forti, classifiche, vincitori e vinti.
Ma la “noia”, come dico sempre, è il vero banco di prova dell’appassionato di ciclismo: devi abbracciarla, capirla, abitarla.
Se ci riesci, allora il ciclismo ti apparirà diverso, in tutta la sua meraviglia. E la Sanremo con lui. Perché la Sanremo non è solo una corsa: è un viaggio. Forse l’ultimo vero viaggio rétro – da Belle Époque – che ci resta nel calendario World Tour. Servirebbe il Wim Wenders di “Die Gebrüder Skladanowsky” (GER, 1995), con la sua magistrale sequenza conclusiva, in cui passato e presente si fondono, per raccontare al meglio la Milano-Sanremo. Da Lucien Petit-Breton a Vincenzo Nibali, fino al prossimo – imminente – vincitore ancora da decretare.
Un viaggio ricorsivo, lungo 112 anni, che è anche un catalogo delle qualità paesaggistiche e degli errori (talvolta, “orrori”) urbanistici che hanno caratterizzato il territorio del Nord Italia e, soprattutto, della Liguria.
La Milano-Sanremo è anche questo, infatti: un faro puntato sull’abnorme antropizzazione della riviera, sulla densità edilizia insensata che è andata depositandosi in quel contesto: intasandolo, soffocandolo, ponendolo in una costante condizione di rischio.
Allo stesso tempo, è un faro puntato sulla bellezza straordinaria di quel territorio, che resiste nonostante tutto. E che solo il ciclismo riesce a veicolare, nel mondo, in modo così potente, grazie al supporto della dimensione emozionale tipica dello sport. Spettacolo straordinario.
Come detto, non so chi vincerà. O, forse, potrei anche prefigurarlo: non è del tutto vero che i pronostici non mi si addicono.
Semplicemente, non m’importa.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)