20 lug 2018 – Il segno di G.
Questa è l’unica sintesi possibile della dodicesima tappa del Tour. Perché servirebbe il grande Charles Sanders Peirce, il padre della semiotica moderna, per interpretare in modo compiuto tutto quello che è successo oggi. Una tappa da “semiosi illimitata” o, se preferite una locuzione più vicina al gergo del ciclismo, da “fuga degli interpretanti”.
Forse era destino che accadesse nel giorno dell’Alpe d’Huez, una delle salite più celebri e simboliche della storia della Grand Boucle.
Proprio lì, sull’Alpe, è posto il traguardo di una frazione di 175 chilometri che è come una vetrina delle qualità territoriali della regione Auvergne-Rhône-Alpes. Si parte da Bourg-Saint-Maurice e si percorre una sequenza di luoghi e paesaggi eternati dal ciclismo. Lungo il tracciato si incontrano due classiche ascese hors catégorie: il Col de la Madeleine e il Col de la Croix de Fer. In mezzo c’è un GPM di seconda categoria: il Lacets de Montvernier. Poi si arriva all’Alpe, dove aleggia il fantasma temibile di Fausto Coppi, che qui vinse nel 1952. Era la decima tappa di quel Tour, la prima volta in cui veniva affrontata questa salita.
“Fantasma temibile” non sono io a dirlo: è la definizione che Roland Barthes, uno che di segni si intendeva parecchio, diede di Coppi nel suo celebre saggio “Il Tour de France come epopea”. Parlava di un corridore non solo vivente, a quel tempo, ma anche all’apice della sua straordinaria carriera: «COPPI. Eroe perfetto. Sulla bicicletta ha tutte le virtù. Fantasma temibile». La capacità di sintesi è la virtù dei grandi. Gli altri si limitano a raccontare noiosi aneddoti storici.
La tappa parte e si inizia subito a pedalare a velocità folle. Fa caldo. Si capisce presto che sarà una situazione infernale per molti. Si profila il giorno del giudizio per i velocisti d’élite che avevano dominato la scena durante la prima settimana. Greipel Gaviria e Groenewegen si ritirano. Sagan no. Peter Sagan non è mai stato un velocista: lui è one of a kind.
Il team SKY prova a controllare la corsa, come sempre, ma non è facile: l’anarchia di ieri ha lasciato il segno, nonostante gli esiti deludenti per molti, e continua a essere fonte di ispirazione.
Dopo mosse e contromosse si crea una prima fuga consistente. Poi, quando mancano 90 km al traguardo, è Pierre Rolland ad andarsene da solo, memore della sua vittoria sull’Alpe nell’anno 2011. Erano altri tempi, quando ancora nutriva grandi sogni di gloria. Ci prova, sapendo di non potercela fare: «sacrificio-tipo perché ingiusto e necessario» si potrebbe dire, usando le parole che Roland Barthes, ancora lui, dedicò al suo quasi omonimo Antonin Rolland, sessant’anni e più addietro.
Viene raggiunto da ciò che resta della fuga. Sono in undici a guidare la corsa quando mancano 75 km all’arrivo: Martinez, Kruijswijk, Barguil, Izagirre, Nieve, Amador, Valverde, Majka, Zakarin, Gesink e lo stesso Rolland.
Poi parte Steven Kruijswijk, uno che ha rischiato di vincere il Giro d’Italia. Se ne va da solo. Il “race center”, cioè il servizio di diretta web proposto dal Tour, in stile social media, non perde l’occasione per un gioco di parole memorabile: un corridore olandese, il cui cognome potrebbe essere tradotto come “quartiere della croce”, sta per scalare la celebre salita della “croce di ferro”. Quale meravigliosa referenza! A questo punto, Roland Barthes inizia a rivoltarsi nella tomba e maledice tutti.
Nonostante gli anatemi, Kruijswijk corre come un treno, accumula vantaggio. Arriva ai piedi della salita finale con oltre 4 minuti su ciò che resta del gruppo dei “big” di classifica.
Lì, però, inizia un’altra corsa.
Perché tra tutte le salite alpine «l’Alpe d’Huez è quella che ami e temi di più. Ci sono salite più lunghe e salite più ripide, ma questa è la più iconica». Ad averlo scritto non è l’onnipresente Barthes. L’autore è Geraint Thomas, detto “G”: l’uomo che ieri ha conquistato la maglia gialla del Tour e che oggi corre indossando il simbolo del primato. Dovete leggerlo il suo libro, pubblicato nel 2015. È intitolato “The World of Cycling According to G”. In Italia non l’hanno mai tradotto, ma fidatevi di me: vale un corso d’inglese, se già non conoscete la lingua. Vi serve per capire il ciclismo che stiamo vivendo in questi ultimi anni.
Lungo la salita dell’Alpe d’Huez «tutti i corridori hanno le stesse sensazioni. Pedalare nel gruppetto è un brivido meraviglioso. Pedalare in testa al gruppo […] è ancora meglio, aprendo la strada sulla curva degli olandesi, attraversando il pandemonio della curva degli irlandesi, scalando con i migliori in mezzo a più di 100.000 tifosi urlanti», scrive ancora G.
È come uno stadio di calcio l’Alpe d’Huez. Il pubblico è protagonista, anche più dei corridori. Come ha dichiarato Andy Hampsten, vincitore del Giro d’Italia del 1988, senza il Tour e la sua storia, l’Alpe sarebbe solo «una bella strada che porta a un resort per lo sci». A citarlo è Peter Cossins, uno dei giornalisti più interessanti del panorama ciclistico contemporaneo. Cita anche Tim Moore, brillante scrittore inglese che ha definito le tappe sull’Alpe d’Huez come una sorta di festival di Glastonbury per i tifosi del ciclismo. Insomma: il pubblico è debordante e può essere un problema. Lo sa bene Alberto Contador che, nel 2011, rifilò un pugno in faccia a un tizio che lo stava importunando troppo.
Lungo i tornanti dell’Alpe è il team SKY a dettare il ritmo a ciò che resta del gruppo: Bernal fa un lavoro magistrale, quasi sovrumano. Si stacca Daniel Martin. Nibali prova un attacco quando mancano 10 km al traguardo: è un test, per lui e per gli altri. Rientra subito. Poi è il turno di Quintana. È un altro test, ma gli dice male: quando rientra in gruppo, inizia a scivolare indietro.
Poi Landa innesca involontariamente Bardet. L’idolo di Francia ne approfitta per prendere un vantaggio non disprezzabile.
Mancano 7 km alla vetta e il solitario Kruijswijk ha ancora due minuti di vantaggio.
Si arriva alla curva degli olandesi, dove i fumogeni arancioni si sprecano: come il cervello di chi li ha accesi.
Bardet va alla caccia di Kruijswijk, che ormai sta cedendo. Tra il pubblico a bordo strada, e in mezzo alla strada, spiccano due idioti rispettivamente vestiti da Superman e da Zinedine Zidane: rischiano di causare un disastro in corsa.
E il disastro arriva poco dopo, quando mancano 4 km al traguardo: Froome e Thomas accendono il turbo per riprendere Bardet, Nibali sembra riuscire a tenere bene le loro ruote, ma scompare in una nuvola di fumo in cui si sono infilate, in modo goffo e imprudente, anche le moto della Gendarmerie. Forse una di queste urta Nibali, forse Nibali urta l’ennesimo tifoso indisciplinato. L’unica certezza è che Vincenzo cade male. Si capisce che è dolorante, ma rimonta subito in sella.
Froome passa l’eroico Kruijswijk, va a riprendere Bardet e si tira dietro Thomas e Dumoulin.
A quel punto, Froome dimostra di essere davvero il grande campione che la storia ci sta consegnando: impone una tregua per consentire a Nibali di rientrare. Lui, Dumoulin, Thomas e Bardet proseguono affiancati, a passo lento, per alcune decine di metri: come quattro cavalieri di un’Apocalisse insolitamente benigna.
Ma Bardet equivoca, non capisce la situazione. Forse. In ogni caso riparte a razzo verso il traguardo che gli potrebbe regalare la gloria in patria. Conta solo vincere nella vita, in fondo. La pensa così anche Landa, che aveva approfittato della tregua per rientrare sulla testa della corsa. A quel punto, deve per forza partire anche Froome, ma sembra non averne abbastanza. Serve un atto di giustizia divina per chiudere questa tappa folle. Serve un segno della maglia gialla. Il segno di G.
E accade: Geraint Thomas scatta, se li beve tutti allo sprint e vince.
Nibali arriva con soli 13 secondi di ritardo da G: un miracolo. Ma non serve a molto: gli esami medici, svolti dopo la tappa, evidenziano una frattura a una vertebra. Il suo Tour finisce qui. Si ritira.
In casa ASO, stasera, c’è un piccolo problema di logica: non ha senso preoccuparsi per lo spettacolo, inventandosi tappe brevi e asfissianti, se poi si rovina la classifica generale con la gestione precaria di un tappone tradizionale.
Rileggere Charles Sanders Peirce farebbe bene anche a loro, magari iniziando da uno dei suoi saggi più famosi: “How to Make Our Ideas Clear”.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)