7 giu 2018 – L’equazione è elementare: basso costo del lavoro uguale alta redditività per chi produce. Questa la formula che da quando è nato il capitalismo guida la produzione industriale, questa la formula cui ovviamente non sfugge la filiera delle biciclette, che negli ultimi trenta anni ha visto modificare nettamente la sua collocazione geografica. Le bici in carbonio che paghiamo migliaia di euro sono fabbricate tutte in Cina? È un assurdo luogo comune questo, è una generalizzazione superficiale che deve essere nettamente smentita perlomeno a causa di una duplice serie di ragioni. La prima, è che ci sono bici in carbonio e bici in carbonio, ovvero ci sono prodotti che sono sempre realizzati in materiale composito, ma che sono caratterizzati da un livello qualitativo molto diverso, sia per quel che riguarda i materiali usati, ma soprattutto per quel che concerne i processi tecnologici che danno loro forma. La seconda è che parlare genericamente di “Cina” non tanto come identità statuale ma come area geografica rappresenta una lettura evidentemente distorta e malinformata, oltre ad essere una interpretazione estremamente riduttiva e semplicistica.
È invece esattamente quello che entro i nostri confini ancora sentiamo dire da tanti, troppi appassionati praticanti, magari quelli più tradizionalisti, quelli che ancora rimpiangono il tanto amato “Made in Italy”. Svegliatevi ragazzi: lungi da noi dal rinnegare la bontà della produzione di Casa nostra, una produzione che al giorno d’oggi sa ancora esprimere picchi (o sacche?) di grande eccellenza, ma sappiamo bene che l’epicentro della produzione di massa di alta gamma si è spostata da tempo in Oriente, con il distinguo che questo Oriente non va associato solamente con la “Cina”, ma deve essere scomposto in numerose entità produttive, ognuna con la sua storia e ognuna soggetta a un’evoluzione così veloce e a delle dinamiche di mercato così variabili che i nostalgici del Made in Italy forse non riusciranno neanche a capire per quanto arrugginito e lento è un verto modo di pensare…
È ancora una volta il recente viaggio che Cyclinside ha fatto nell’isola di Taiwan ad averci ricordato quanto il mercato della produzione ciclistica attuale sia mutato e quanto sia mutevole negli ultimi, anzi negli ultimissimi tempi. Taiwan, appunto: la produzione di massa dei prodotti di alta gamma della filiera ciclo arriva principalmente da lì. Taiwan è un’isola che, attenzione, l’Italia, l’Unione Europea e la maggior parte dei Paesi al mondo non riconoscono come entità statuale autonoma, ma che in realtà ha un’amministrazione e una gestione giuridica a sé stante e delle relazioni anche piuttosto tese con la Cina continentale (ossia con la Repubblica Popolare Cinese). Ci basta dire che se un italiano vuole viaggiare per turismo a Taiwan non necessita di visto di ingresso, cosa che invece deve fare ogni cinese continentale che vuole recarsi sull’isola (e viceversa per i taiwanesi). Tant’è: l’industria ciclistica taiwanese è sì un’industria di massa e su larga scala, ma di sicuro è un’industria matura, che dopo quella sorta di boom economico che ha conosciuto negli anni Ottanta (la maggior parte delle fabbriche ciclistiche taiwanesi sono nate in quel periodo) si è con il tempo qualificata, raggiungendo standard tecnologici di alto livello.
Parallelamente a questo a migliorare è stato anche il reddito pro capite e, a cascata, il tenore di vita dei cittadini e il costo del lavoro. Ad oggi il salario medio di un operaio specializzato, per intenderci di quelli che si possono trovare a montare le biciclette nei grandi stabilimenti di Giant piuttosto che di Merida o di Specialized dislocati sull’isola, è di circa 6, 700 dollari al mese, ovvero circa un terzo in più di quel che un omologo operaio del settore ciclo della Repubblica Popolare Cinese percepisce oggi. Questo cosa ha comportato? Che molti tra gli imprenditori taiwanesi hanno negli ultimi tempi delocalizzato parte della loro produzione da Taiwan alla Cina, ma generalmente lo hanno fatto per i prodotti di gamma media, oppure per gli entry level. Un esempio di tutto questo ci viene da Axman, azienda che abbiamo visitato. Da noi in Europa Axman è semisconosciuta, ma a Taiwan, e in genere in tutta l’Asia pacifica, è un brand assai popolare, con un fatturato totale di 60 milioni di dollari l’anno e con un totale di 80, 90.000 biciclette che escono nello stesso periodo dai suoi stabilimenti. No, non si tratta di biciclette tutte prodotte in casa, perché il business principale dell’azienda con sede a Changua, a due passi da Taichung, è quello di verniciare e poi montare telai di marchi occidentali conosciutissimi (tra questi Salsa, Surly e Rocky Mountain solo per citare i più famosi… ). Una voce importante del fatturato Axman è però rappresentata dai telai proprietari, siglati appunto “Axman”, la maggior parte dei quali – in particolare quelli di media gamma – gli arrivano proprio dalla Cina continentale per poi essere verniciati e montati “in casa”. Come dire, qui da noi in Italia c’è ancora chi critica la delocalizzazione di tante aziende costrette ad emigrare all’estero per i costi troppi elevati senza considerare che anche in altri posti del mondo le dinamiche sono esattamente le stesse. E non può che essere altrimenti.
Ma non finisce qui: la nuova frontiera, ci hanno detto diversi CEO delle diverse aziende taiwanesi che abbiamo visitato, è che molte aziende stanno ulteriormente delocalizzando la produzione dalla Cina ad alti Paesi asiatici, perché lì costi sono ancora più bassi rispetto ad una Cina che, seppure con ritmi di crescita che si sono abbassati negli ultimi tempi, nel corso degli ultimi tre lustri è comunque cresciuta tantissimo. E quindi è diventata per tutti più costosa. Di conseguenza si stanno affacciando nuovi Paesi orientali dove tante aziende del settore stanno andando a produrre: il primo di questi Paesi è la Cambogia, dove oggi già numerose aziende delle bicicletta hanno stabilito la loro produzione di massa di fascia bassa, di entry level o di biciclette da bambini; prezzi ancor più concorrenziali per impiantare nuovi stabilimenti li sta offrendo oggi il Vietnam, che tante aziende ciclistiche considerano davvero la loro nuova frontiera di questi tempi. Cosa altro dovremmo aspettarci in seguito? Di sicuro altri Paesi si affacceranno, perché no, anche quelli africani, che per tante aziende cinesi è già un posto particolarmente appetibile per investire e, chissà, dove magari un giorno vedremo anche bici “Made in Africa”. Chissà se quel giorno sarà rimasto ancora qualcosa del Made in Italy? Secondo noi, di sicuro, il gusto italiano. E non è poco, statene certi.
Maurizio Coccia