20 lug 2018 – The day after. La folle tappa dell’Alpe d’Huez ha fatto deflagrare il Tour de France, creando un fallout fisico e morale i cui effetti ci saranno pienamente chiari solo nei prossimi giorni.
Si riparte da Bourg d’Oisans per una frazione vallonata di 170 chilometri che porterà il gruppo, quel che ne rimane, fino a Valence. È l’ultima giornata nella regione dell’Auvergne-Rhône-Alpes. Si passa per Grenoble, città di antica e solida tradizione universitaria, con uno dei servizi metropolitani di noleggio biciclette, il Métrovélo, più estesi e performanti di Francia. Qui la mobilità sostenibile la prendono sul serio. Qui, in partnership con le istituzioni locali, dal 2014 al 2017, Toyota ha condotto una sperimentazione per un nuovo sistema “smart” di mobilità locale su gomma, basato su innovativi micro-veicoli elettrici: Cité Lib by Ha:mo, si chiama.
Di insostenibile, in questo angolo verde e bellissimo di Francia, c’è solo l’aria che si respira nell’ambiente del Tour. La caduta e il ritiro di Vincenzo Nibali hanno scoperchiato il vaso di Pandora delle polemiche: alcune sensate, altre meno. Ma è comunque un vulnus molto grave per la Grande Boucle.
Non è l’unico problema: la tappa odierna, sulla carta, è adatta ai velocisti. Il guaio è che, su quella stessa carta, di sprinter d’élite ne restano pochi: Cavendish, Kittel, Greipel, Gaviria e Groenewegen sono tornati a casa, dopo aver ceduto alle asperità delle ultime due frazioni. C’è un deficit di quantità e qualità, tra le ruote veloci, ed è destinato a perdurare, o ad aggravarsi, da qui agli Champs-Élysées di Parigi.
In ogni caso, si riparte.
Vanno subito in fuga Tom Scully e Thomas De Gendt. Dopo 30 km di corsa vengono raggiunti da Michael Schär e Dimitri Claeys. Insieme iniziano il loro viaggio da eroi di giornata in corsa verso il nulla. Non hanno nemmeno modo di illudersi: il gruppo li tiene costantemente a tiro. Guinzaglio corto.
C’è tempo per pensare, oggi, mentre la corsa procede. Pensare alla sfortuna di Vincenzo Nibali.
Perché la sfortuna esiste, nello sport, anche se non è scientificamente misurabile come fenomeno. È una condizione relativa, che non dipende dalla natura di un evento negativo, ma dal contesto in cui questo di verifica e dagli effetti che genera. Lo stesso identico evento può colpire in modo diverso una persona, a seconda del momento in cui accade, o può colpire in modo diverso due persone, nello stesso momento. La stessa identica sequenza di eventi negativi può essere sopportabile, se distribuita in un certo lasso di tempo, ma può diventare distruttiva se concentrata in un tempo breve. Chi soccombe, perché si trova nella condizione più difficile tra quelle appena descritte, può in qualche modo essere definito “sfortunato”.
Semmai, è la fortuna a non esistere, perché ogni evento favorevole, anche se raro e improbabile, comporta un’azione per essere meritato. Chi lavora sodo e seriamente, ha più probabilità di successo. Ma anche chi vince perché tutti gli altri si ritirano ha un piccolo merito: era in gara, aveva fatto il minimo necessario per esserci.
La fortuna, nello sport, spesso consiste semplicemente nell’assenza di sfortuna.
Se tutto ciò vi sembra un’astratta e noiosa teoria, passiamo agli esempi.
Marco Pantani è stato un corridore molto sfortunato. Non mi riferisco ai suoi problemi personali e alla sua tragica fine: quella è materia per cui ho un sacro rispetto e che non mi permetto di commentare. Mi riferisco, invece, alla sequenza micidiale di infortuni subiti nei primi anni di carriera, spesso gravi, spesso in momenti topici della stagione agonistica, che ne hanno ritardato molto l’ascesa ai vertici del ciclismo mondiale. Senza quegli eventi negativi, il palmarès di Pantani, consegnato alla storia, sarebbe probabilmente più ricco. Molto più ricco.
Lance Armstrong, invece, è stato un corridore fortunato. Non parlo delle vicende che ne hanno determinato, poi, la squalifica e nemmeno dei sui problemi personali. Parlo di quel che gli è accaduto in gara, quando conquistava Tour a ripetizione.
La sua sequenza clamorosa di vittorie avrebbe potuto fermarsi ancora prima di cominciare: il giorno del prologo dell’edizione 1999, sfiora un incidente disastroso con un’auto del team Telekom, mentre sta provando il percorso. Riesce a sterzare all’ultimo secondo, urta lo specchietto, cade, ma non viene investito. Non si fa niente. Vincerà. È uno dei tanti aneddoti di questo tenore raccontati da Tyler Hamilton e Daniel Coyle nel bel libro “The Secret Race” (2012). Il più clamoroso lo conoscete tutti, o quasi: è la quindicesima tappa del Tour 2003, da Bagnères-de-Bigorre a Luz-Ardiden. Armstrong è in maglia gialla, ma non è ancora riuscito a liquidare con grande anticipo i suoi concorrenti, come era solito fare. Sulla salita finale, mentre sfiora il pubblico a bordo strada, una scelta deliberata per ridurre la possibilità degli avversari di mettersi in scia, incappa nella musette (quelle piccole borse per i rifornimenti che anche il pubblico può avere come souvenir) tenuta da un bambino. Il manubrio ruota. Armstrong cade male e trascina a terra anche Iban Mayo. Si rialza come niente fosse, abusa del fair-play degli avversari, e vince la tappa.
Insomma: al netto di alcune differenze rilevanti (c’era meno pubblico, non c’erano i fumogeni) è una dinamica quasi identica a quella dell’incidente di Nibali nella tappa di ieri. Gli esiti, però, sono stati terribilmente diversi.
Vincenzo Nibali non ha nulla del vecchio Lance, ma è stato spesso accostato a Marco Pantani, come figura capace di suscitare entusiasmo tra gli appassionati di ciclismo italiani, e non solo. Ci sono differenze tecniche evidenti, tra i due, dal punto di vista dello stile in sella e in corsa. Ma, soprattutto, differenze caratteriali.
Vincenzo sembra avere un animo molto meno tormentato e, probabilmente, ha anche la fortuna di avere intorno un ambiente che gli garantisce tranquillità. Forse per questo è riuscito a vivere l’incidente di ieri con la serenità ammirevole mostrata in tutte le interviste. Forse sa che il bilancio complessivo tra fortune e sfortune, nella sua carriera, è ancora accettabile. Forse ha raggiunto la consapevolezza di essere già entrato definitivamente nella storia del ciclismo, palmarès alla mano.
Non lo so. Non siamo amici io e Nibali, nella vita reale. Ma ho sempre provato grande simpatia e ammirazione per lui e per il suo modo old school di correre: si va in cerca di qualcosa ogni volta che si attacca il numero alla maglia, altrimenti ci si annoia e si annoia il pubblico. È come un panda, Vincenzo Nibali, nel ciclismo attuale: andrebbe protetto e tutelato di più. L’hanno capito anche in Francia, adesso. Finalmente.
E anche i fuggitivi della tappa odierna, nel frattempo, hanno capito qualcosa: è ora di tornare nei ranghi, prima di farsi risucchiare malamente dal gruppo nel finale. Il quartetto inizia a sfaldarsi a 25 km dall’arrivo. Insiste solo Schär, che viene ripreso qualche migliaio di metri dopo.
Poi si va al traguardo per uno sprint che, in qualche modo, sarà comunque una novità assoluta. Infatti, quando mancano 3 km, si forma il treno della Trek-Segafredo, con l’obiettivo di portare John Degenkolb alla vittoria. Fanno una tirata micidiale in testa: duemila metri a tutta. Poi li soppianta il treno della FDJ, ma è solo un istante, perché Philippe Gilbert accende il turbo e tenta la mossa da finisseur.
Lo riprendono a 400 metri dal traguardo. Parte la volata. È una questione tra Kristoff e Démare e Sagan.
La sfortuna, per fortuna, non si intromette. Quindi non c’è nemmeno bisogno di dire chi vince.
Shakespeare chioserebbe: la fine è nota.
Paolo Bozzuto
(docente di urbanistica al Politecnico di Milano, autore del libro “Pro-cycling Territory“)